lunedì 18 luglio 2011

Una


Ultimamente (sempre) sono una si commuove facilmente e - ho l'impressione - che talvolta si autocompiace della propria commozione. Non è un pregio oltre un certo limite. Nel personaggio non precario del passato la lacrima facile cominciò ad infastidirmi, probabilmente anche perché associata alla passività o alla resistenza passiva, che - credo, penso, spero - non mi appartiene.
Sarà che ho dovuto salutare le piccole grandi persone con cui ho condiviso tre anni: piangevano loro, figuriamoci io; ho visto poi un piccolo grande eroe stringere i denti, affrontare le tragedie vere, quelle non virtuali, quelle che fanno male davvero e possono uccidere e superare un anno e un esame a pieni voti. Ma mi commuovo anche per meno. M'hanno proiettato l'ultimo Harry Potter e giù a piangere da metà film. Non per il non capolavoro cinematografico, s'intende; per la storia, per una parte di vita che si chiude. Poi ci sarebbero i libri (l'ultimo capitolo de Il signore degli anelli), i film e i telefilm a pianto sicuro (The notebook, l'ultima puntata della terza serie di Gilmore Girls, l'ultima puntata di Dawson Creek). E poi c'è una sera in cui vai a Quarrata ad ascoltare un saggio di fine anno di piccoli musicisti e dopo un "YMCA" e una marcia trionfale dell'Aida (in questo esatto ordine), tutti i musici e i coristi si riuniscono sul palco, entra uno dei ragazzi più grandi con bandiera tricolore apprezzabilmente ampia, sale su un cubo e inizia ad agitare il vessillo; i fiati attaccanno l'inno di Mameli e tutta la platea in maniera spontanea si alza e si unisce, (alcuni) con la mano sul cuore. Io, naturalmente, canto e lacrimo. Mi fa un po' rabbia quest'amor di patria riscoperto solo ora, per caso, per una volta senza i mondiali di calcio a tiro di pallone, eppure cedo comunque ad una lacrima. Una, eh.
In ogni caso sono sempre lacrime di commozione. Per tutto il resto del tempo l'imperativo morale è ridere di gusto il più possibile, benché non sempre mi riesca.

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